Binari.
Da bambino, quando partiva guardava i binari dal finestrino correre sul selciato. Si affascinava a vederli correre ad inseguire il treno.
Mentre entrava in stazione guardò verso l’alto. I leoni alati in marmo sul frontespizio della stazione lo guardavano severi. Lui li fissò stagliarsi sul cielo ancora buio dell’alba e aveva l’impressione che leggessero quella paura che non sapeva neanche spiegare e che tuttavia non poteva mostrare. Lui era dalla parte dei forti, eppure questo non lo tranquillizzava affatto. Continuò a fissarli fino a quando non sparirono dalla vista dietro la trave della porta d’ingresso. Sapeva che era solo una sua sensazione, eppure non vederli lo faceva sentire meglio, come se così non potessero più giudicarlo. Si diresse verso le scale che salivano ai binari senza troppo guardarsi attorno. Sentiva gli sguardi dei tagliagola nascosti da qualche parte pesare sulla valigetta, che però erano troppo furbi per avvicinarsi. Sentiva la violenza dei loro pensieri ma sapeva che non sarebbe successo niente, che nessuno avrebbe osato. Tuttavia strinse più forte la maniglia nel suo guanto di pelle nera. E con l’altra fece per slacciare i bottoni del suo impermeabile in pelle sul petto. Avvicinando così la mano alla fondina sul fianco.
Si avvicinò alle barriere in vetro che si aprirono lasciandolo passare per richiudersi alle sue spalle. Si fermò solo un attimo per guardarsi attorno e si portò una mano sulla bocca come a trattenere un colpo di tosse. Solo chi lo conosceva sapeva che stava tirando un sospiro di sollievo, ma in un modo che nessuno avrebbe potuto notare.
Quel mondo nuovo si nutriva di paura. E non c’era possibilità di poterla mostrare. Non se volevi durare a lungo…
Sul tabellone girava un video su quei paradisi residenziali fuori dall’area urbana che promettono lusso, servizi e alta sicurezza “Come prigioni a cielo aperto…”. Questo lo pensava, ma non avrebbe mai potuto dirlo. Sul tabellone digitale vide che il treno non era ancora al suo binario. Così iniziò a camminare verso il bar e sentì il rumore dei suoi tacchi risuonare nell’androne. Rallentò. Odiava essere notato.
Si sedette al tavolo.
Avrebbe voluto bere un caffè. Quello vero. Quello che ti brucia le labbra e per un attimo scalda il petto e il resto scompare. Ma dopo la guerra era impossibile trovarlo.
Si poteva ordinare solo quello di cicoria.
Perché è pulito e sostenibile.
”Ci forzano a mettere dentro dei poveri cristi, ma dobbiamo berci questa roba.” Si accorse di averlo detto a bassa voce. Avrebbe potuto pagarla cara. Con gli occhi si guardò attorno. Il barista stava pulendo la macchina con uno sbuffo di vapore. Non poteva averlo sentito. Buttò giù il sorso amaro. Appoggiò la tazzina. Si asciugò le labbra. Poi si appoggiò allo schienale a guardare i binari.
Da bambino, quando partiva in treno guardava i binari dal finestrino correre sul selciato. Si affascinava a vederli correre ad inseguire il treno. Si snodavano, si incrociavano, alcuni si dividevano e poi si allontanavano. Sfrecciavano sotto la pioggia, la neve o riflettevano il sole negli occhi.
Chissà dove andavano. Magari lontano in quei posti che sapevano di erba oppure di mare. Magari in posti dimenticati.
Dimenticati. Ecco, sì.
Si accorse di desiderarlo.
Partire ed essere dimenticato.
Salì sul suo treno, cercò il suo posto con ancora il sapore di caffè sul palato. Si sedette e guardò fuori dal finestrino la stazione e la gente passare. Aveva accettato l'incarico perché viaggiare sotto copertura lo faceva diventare un signor nessuno. Ed è tutto quello che voleva essere. Sorrise.
Il treno si alzò sul suo cuscino d'aria sottile e inizio a scivolare sui binari.
Chiuse gli occhi. Si lasciò dormire.